Con cliché letterario si intende un luogo comune, un modo di dire oppure una situazione che nella storia della letteratura è comparsa così tante volte da dare immediatamente al lettore un’impressione di banalità. Ma i cliché sono sempre un male?
Usiamo i cliché perché ci piacciono
Siamo onesti: l’originalità assoluta è impossibile. E forse nemmeno auspicabile. L’umanità scrive da millenni e se ancora siamo in grado di emozionarci per l’Iliade, significa che le situazioni capaci di colpirci a fondo non sono mai cambiate più di tanto. Piangiamo per il sacrificio di un eroe, ci emozioniamo quando due amanti contrastati riescono a stare insieme, proviamo pietà per un padre che ha perso il figlio. Diversi teorici della letteratura hanno provato a teorizzare l’esistenza di macrocategorie in grado di contenere tutte le storie possibili. Qualcuno ne ha individuate una decina, qualcuno addirittura quattro.
I cliché sono utili. Aiutano il lettore a orientarsi, a capire dove collocare l’opera nel panorama letterario.
Alcuni distinguono tra topoi e cliché, identificando nei primi una sorta di “versione buona” dei secondi. In realtà io trovo questa separazione piuttosto oziosa, a partire da una questione di etimologia. Topos in greco significa luogo: in ambito letterario, indica in senso proprio un luogo comune, una situazione tipica di un certo genere. A livello funzionale non cambia niente: stiamo parlando di schemi ricorrenti, che in alcuni casi hanno una buona riuscita, in altri fanno alzare gli occhi al cielo.
Esempi di cliché che hanno fatto diventare ricchi gli scrittori che li hanno usati
- L’orfano predestinato. Stiamo parlando di Harry Potter. Ma anche di Star Wars. O, aspetta, forse anche di Eragon, La ruota del tempo, Mistborn…
- Il triangolo amoroso. Twilight, Hunger Games…
- La bella e la bestia. Dalle interpretazioni più contemporanee e audaci come 50 sfumature possiamo risalire alla letteratura in lingua latina di Apuleio, e forse ancora più indietro.
- Enemies to lovers. Forse Shakespeare non è diventato miliardario, ma è diventato immortale. E posso assicurarti che Romeo e Giulietta non era il massimo dell’originalità nemmeno in età elisabettana.
Anche ribaltare il cliché è un cliché. Basti pensare al cliché dell’agnizione, quel momento in cui il protagonista scopre di essere il figlio perduto del re (o in generale della persona più ricca e potente della storia). Questo schema nasce con la commedia greca e arriva fino ai nostri giorni. Un ribaltamento in negativo è, per esempio, il protagonista che scopre di essere il figlio del suo nemico. Ti ricorda qualcosa?
Il punto non è il cliché, ma l’uso che ne fai
Se i cliché sono inevitabili, come mai alcuni libri ci fanno sbuffare fin dalla prima pagina, mentre altri ci portano via il cuore? A fare la differenza non è il cliché, ma il contesto in cui è inserito. Se il cliché si accompagna a una caratterizzazione dei personaggi bidimensionale e a un’ambientazione altrettanto stereotipata, risultare banale sarà inevitabile.
Quindi come si fa a essere originali?
Il primo passo è accettare e riconoscere la corrente letteraria in cui vuoi inserirti. Identifica il tuo pubblico, i libri che il tuo pubblico già conosce, i cliché (o topoi, se preferisci) che apprezza. Una volta capito questo, cerca di capire dove puoi innovare, o magari importare elementi da altri generi, senza compromettere l’efficacia della tua narrazione. Leggere tanto è il modo migliore per capire dove c’è spazio per apportare modifiche al canone, dove l’ennesima ripetizione farebbe innervosire i tuoi lettori, dove invece puoi sfruttare un cliché per ottenere un determinato effetto. L’errore del principiante è usare il cliché senza accorgersene, e quindi scadere in una situatione trita. I più esperti conoscono i cliché del loro genere di riferimento e sanno gestirli per creare opere soddisfacenti.
Fammi sapere nei commenti quali sono i cliché che apprezzi e quelli che, invece, ti fanno innervosire!